Messico e Día de Muertos: l’esperienza dei volontari ENGIM
Sentieri di fiori profumati, tra i quali è sovrano il cempasuchil (Tegetes erecta), attraggono l'anima del defunto e nei pochi spazi rimasti liberi si ergono fiere le Calaveras commestibili a ricordare che la morte arriverà per tutti, ma anche che questa può essere sia dolce che amara.
Questo è uno stralcio del testo scritto dai nostri volontari in Servizio Civile in Messico Anna Tornaghi, Nicoletta Todesco e Marco Dalla Stella, che ci propongono la descrizione di un'esperienza molto particolare e intensa: la celebrazione del Día de Muertos. Leggi tutto il racconto e visita la gallery!
Messico e Día de Muertos
di Anna Tornaghi, Nicoletta Todesco e Marco Dalla Stella
La muerte es democrática, ya que a fin de cuentas, güera, morena, rica o pobre, toda la gente acaba siendo calavera
José Guadalupe Posada
Morte e Messico. Un binomio inscindibile, scontato verrebbe da dire. Le storie, le leggende, gli aneddoti che esistono a tale proposito sono pressoché infiniti. Parlano di divinità dell'oltretomba, di fantasmi, di rituali magici, di sacrifici umani e di rivoluzioni. Attraversano la Storia di questa terra sconfinata, irrorandone la terra e scavando solchi sui volti di chi la abita e la lavora. «Cuándo te toca, te toca» dicono da queste parti, troncando con caustico fatalismo ogni discorso riguardo l'insicurezza che dilagante nel Paese.
Una cultura meticcia
La storia della relazione privilegiata (qualcuno la definirebbe luna di miele) tra Morte e Messico affonda le sue radici nella vita precedente dei messicani, quando ancora il Vecchio Continente ignorava l'esistenza di questa terra e popoli riottosi si spartivano il dominio su quelli più pacifici. Il Messico prima del Messico aveva una visione complessa dell'aldilà, che immaginava vario e governato da più divinità ma al cui vertice regnava la coppia composta da Mictlantecuhtli e Mictecacihuatl, rispettivamente re e regina dell'oltretomba. Mondo terreno e mondo degli spiriti erano per i mexica (come sono anche noti gli aztechi) in un dialogo continuo, non esistendo la netta contrapposizione cui siamo abituati, dove l'uno era la continuazione dell'altro e viceversa, in un ciclo infinito di creazione e distruzione.
Ai defunti erano riservate le celebrazioni più importanti dell'anno, che potevano arrivare a durare più settimane con danze, canti e offerte di ogni tipo ed in cui non mancavano rappresentazioni di figure con sembianze scheletriche. I mexica, in occasione dei festeggiamenti in onore dei morti, avevano l'usanza di recidere un albero, togliervi la corteccia e adornarlo con fiori. L'albero, chiamato xócotl, fungeva così da collegamento con l'oltretomba e diventava il centro focale di ogni festeggiamento ad esso correlato. Attorno ad esso si realizzavano infatti processioni, sacrifici, danze ed ai suoi piedi la gente del villaggio era solita collocare altari con offerte in memoria dei propri defunti.
La Conquista fisica e spirituale inaugurata da Hernan Cortés e che condusse all'istituzione della Nueva España tentò di instaurare nel Nuovo Mondo gli usi, i costumi, le credenze e le festività tipici del Cattolicesimo. Per la fortuna nostra e dei viaggiatori curiosi che hanno la fortuna di passare da queste parti, non ci riuscirono mai del tutto. La Morte europea, raffigurata come una signora scheletrica con falce e mantello, sbarcò dalle navi spagnole insieme a tutto il suo immaginario fatto di peccati, punizioni e fiamme eterne, e presto divenne uno degli importanti strumenti di coercizione (insieme alla tortura) del dominio europeo. Ma il braccio di ferro tra evangelizzazione spagnola e credenze native non si esaurì in breve tempo con la vittoria del più forte, e condusse nel corso dei secoli a complessi sincretismi, in cui le due diverse culture (una dominante ed una dominata) non giunsero mai del tutto a sovrapporsi, ma si fusero in modi strani ed imprevedibili e diedero vita, nelle loro saldature, a ciò che è il Messico odierno.
La Catrina e José Guadalupe Posada
Quello che è riconosciuto come simbolo forse più celebre della morte (e del Giorno dei Morti) in Messico è una figura scheletrica femminile ritratta con un grande cappello francese con piume di struzzo, intenta a ridere di gusto. Si tratta della Catrina, una donna che se ne infischia della propria morte e, amante della vita mondana qual'è, si mette in ghingheri per apparire ancora bella com'era in vita. La stessa forma di truccarsi tipica del giorno dei Morti, con volto scheletrico ma con fantasie colorate, brillanti, talvolta floreali è un'eredità di questa figura.
Questa scelta stilistica di raffigurare i morti come scheletri intenti a portare avanti le proprie attività quotidiane, apparentemente ignari della propria condizione, si deve all'usanza popolare di farsi burla delle diverse classi sociali (soprattutto delle più elevate, ma non solo) raffigurando le persone unicamente con le loro ossa e qualche tratto distintivo (nel caso di Zapata, ad esempio, nemmeno la morte gli fece perdere gli iconici baffi). I protagonisti del mondo politico in particolare, nonostante grandi manovre economiche ed epiche imprese militari, sono destinati a diventare un cumulo d'ossa identico a quello del lustrascarpe, ma il loro ego è tale che nemmeno dopo esser passati a miglior vita riescono ad abbandonare i segni del potere che possedevano in vita, e che ora sono invece insignificanti. Ridere della vita attraverso la morte è sempre stato l'ultimo grido in quanto a satira, da queste parti.
Il massimo esponente di questa forma d'arte fu José Guadalupe Posada, un incisore di Aguascalientes che segnò in maniera indelebile la forma di rappresentare il Messico ed i messicani. Lavoratore instancabile con un grande capacità di cogliere tic e manie dei suoi contemporanei, Posada seppe coniugare l'arte popolare e con la cronaca, giacché la quasi totalità del suo lavoro furono illustrazioni di notizie sui giornali pubblicati dalla casa editrice Arroyo. Una parte importante del suo lavoro (nonché quella per cui principalmente viene ricordato) aveva a che fare con le celebri calaveras, scheletri intenti a comportarsi come fossero vivi, e che accompagnavano le calaveras literarias: brevi componimenti in versi in cui si narravano storie (realmente accadute o no, poco importa).
La più celebre illustrazione di Posada, conosciuta come Catrina, si chiamava in realtà Calavera Garbacera. I garbaceros erano i messicani che, agli inizi del XX secolo, abbracciavano ciecamente i costumi europei al punto da indebitarsi pur di possedere costosi vestiti in grado di differenziarli dal resto del popolo. E' per questo motivo che la defunta di Posada appare nuda, ad eccezione del costoso copricapo che, invece che testimoniarne le nobili origini, ne smaschera la ridicolaggine. La superficialità terrena è così forte da essere tratto distintivo anche quando la carne è ormai separata dalle ossa.
Ci penseranno poi i muralisti Diego Rivera e José Clemente Orozco e la cultura popolare a fare dell'opera di Posada l'iconica Catrina che oggi compare in tutte le guide turistiche sul Messico. La signora defunta viene solitamente ritratta come una donna d'alto borgo, con lunghi vestiti elaborati e grandi cappelli, spesso in atteggiamenti civettuoli, coqueta direbbero qua. Non di rado, è indicata come amante dello stesso Posada nel mondo dell'aldilà.
Día de Muertos
Il periodo dell'anno in cui si celebra il matrimonio fra Messico e morte sono i giorni tra il 28 ottobre ed il 2 novembre, quando ogni famiglia in occasione del giorno di Ognissanti avvia grandi celebrazioni in ricordo dei propri defunti. Le tombe vengono adornate con festoni, papel picado (i tradizionali fogli intagliati messicani), petali e alimenti e bibite care al parente venuto a mancare (non è raro vedere far capolino tra le tombe qualche bottiglietta di Coca-Cola). I famigliari siedono sulle tombe vicine e consumano un momento conviviale, fatto di cibo e chiacchiere, ben lontano dalla tristezza e dal lutto che un europeo potrebbe attendersi. Giovani e adulti si truccano il viso da calaveras e partecipano ai festeggiamenti cittadini come concerti e parate con bande e carri mascherati (non dissimili da quelli del nostro carnevale). Si mangia il celebre pan de muertos, dolce tipico di queste festività che consiste in una focaccia tonda e zuccherata raffigurante delle ossa.
Nelle case, negli uffici e in strada fanno la loro comparsa colorati altari dedicati a qualche famigliare o a personaggi importanti della città. Oltre alla foto del defunto, questi vengono decorati con ogni una serie di ofrendas che possano essere messe in relazione con la persona che ha lasciato questo mondo. Possiamo vedere i cibi preferiti del defunto, ma anche i suoi vizi (pressoché immancabili di alcolici e sigarette) e altri particolari che ricordano la vita della persona. Se il defunto invece è un bambino il suo altare sarà riempito di giochi e piccoli angioletti, nel tentativo di di mitigare il dolore di una morte prematura.
L'altare è completato con una grande quantità di decorazioni che non lasciano neanche un particolare vuoto, un horror vacui all'insegna del kitsch in cui l'occhio vaga smarrito tra papel picado, dolci a forma di scheletri, semi, fiori, candele, incensi e statuette di santi, senza sapere dove soffermarsi. Le ofrendas, oltre ad una chiassosa funzione ornamentale, hanno anche dei significati ben precisi ed una loro specifica collocazione sull'altare.
Gli aromi di copale, erbe aromatiche e mucchi di sale servono a purificare l'anima del defunto, mentre dall'alto dell'altare spicca un arco decorato che rappresenta la porta d'entrata all'oltretomba, quella che permette di giungere al cospetto di Mictlantecuhtli, re dell'aldilà. Seguono quindi gli oggetti simbolo dei quattro elementi: papel picado (aria), oggi realizzato con carta velina mentre un tempo era di corteccia, candele (fuoco) in grado di illuminare la strada dell'aldilà al defunto, bicchieri colmi d'acqua e oggetti per l'igiene personale (acqua) e semi, cacao e mais (terra) a ricordare lo stretto legame con la natura (oggi si fanno portatori anche del severo monito cristiano ripetuto ogni mercoledì delle ceneri «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai»).
Sentieri di fiori profumati, tra i quali è sovrano il cempasuchil (Tegetes erecta), attraggono l'anima del defunto e nei pochi spazi rimasti liberi si ergono fiere le Calaveras commestibili a ricordare che la morte arriverà per tutti, ma anche che questa può essere sia dolce che amara. Ogni altare che si rispetti si completa poi con i ricordi della vita del parente che se n'è andato: cibi preferiti, attrezzi da lavoro, oggetti delle sue passioni e le immancabili bevande “spiritose” della tradizione (tequila, mezcal, rompope, pulque) che alleggeriscono il peso dell'esistenza.
Un Paese in festa
Il Giorno dei Morti, sebbene sia la festività più sentita da tutti i messicani, assume in talune cittadine (talvolta poco più che villaggi) caratteristiche di sensazionale unicità, al punto da renderle meta di pellegrinaggio e turismo anche internazionale.
A Janitzio, un'isoletta in mezzo al lago di Patzcuaro nel Michoacan centrale, ogni anno migliaia di persone assistono all'attraversamento del lago in canoe addobbate per somigliare a farfalle da parte degli abitanti dei paesi vicini, tutti rigorosamente vestiti a festa. Innumerevoli candele illuminano l'acqua e la strada verso il cimitero, contribuendo a creare un'atmosfera unica e suggestiva. Un autentico inframundo nel bel mezzo del Messico più profondo.
A Chignahuapan, nella sierra norte di Puebla, l'unione di tradizioni preispaniche e rito cristiano ha dato esiti unici e in grado di lasciare a bocca aperta anche il più smaliziato dei viaggiatori. Ogni anno infatti ha luogo la messa in scena dell'arduo percorso che l'anima deve compiere per giungere, dopo nove piani al Mictlan: il regno degli inferi. Luce e vita vengono celebrati con una lunga processione illuminata da torce e candele, in una marcia infuocata che va a spegnersi sulle sponde della laguna dove si erige una grande piramide galleggiante custodita da scheletri.
Anche il monstruo, come chiamano i messicani Città del Messico, tra gli ultimi giorni di ottobre ed i primi di novembre si veste a festa. Ogni persona contribuisce a cambiare l'aspetto della città, addobbandone le strade, i negozi, le case con i tradizionali ornamenti. Nello Zocalo, la grande piazza centrale, le ofrendas raggiungono dimensioni ineguagliabili e vedono la partecipazione annuale di importanti artisti nazionali.
Ma è nei quartieri dove si può trovare l'autentico spirito del Día de Muertos. Il quartiere di San Andrés Mixquic, nella delegazione di Tlahuac, è conosciuto per essere il più rappresentativo in questo particolare periodo dell'anno. Il cimitero si tinge di rosso e di arancio, il brulicare di persone è incessante fino quasi alle luci dell'alba quando le candele sono ormai spente ed i famigliari tornano nelle rispettive case.
Se si sa osservare, assistere qui alla celebrazione del Giorno dei Morti significa poter aprire brevemente una finestra sull'essenza più viva e indomita del Messico. La fervente religiosità, l'allegra malinconia, il chiasso, i colori, i vizi, la famiglia. Il conquistato ed il conquistatore, l'indigeno e lo spagnolo, la croce e la bottiglia, la musica ed il lutto confluiscono l'uno nell'altro, in un continuo alternarsi degli opposti che come in un fenomeno carsico regolarmente riemergono dalle profondità umane. Un'alternanza ritmica che diviene danza macabra in onore alla vita.
Una testimonianza dal Nord
Una volta il regista Tim Burton, interrogato sul perché amasse tanto la cultura messicana da inserire nei suoi film numerosi richiami alla tradizione di questo Paese, cosi rispose: «Da dove vengo, la morte è vista più come un tabù, a differenza di questo paese, dove viene interpretata come qualcosa di positivo…come una transizione».
Tim Burton aveva visto giusto. In Messico questa visione non è solo un’impressione, bensì una realtà molto radicata, ed incredibilmente diversa dalla nostra.
Mi vengono spesso in mente “giorni dei morti” italiani che consistono in mezz’ora frettolosa al cimitero, se capita, e qualche pensiero triste favorito dal freddo e dal grigiore dei primi giorni d’autunno.
Ma non è necessario aspettare il due di novembre: se sfortunatamente capita di dovere partecipare a un funerale italiano (e la parola “dovere” non è certo casuale) tutto ció viene vissuto con un velo di depressione e qualche pensiero ansioso, e quando si torna a casa si tira un sospiro di sollievo e si cerca come si può di distrarsi dal triste evento della giornata.
La verità è che noi europei generalmente proviamo una ripugnanza estrema verso la morte, e questa ripugnanza, mescolandosi alla paura, viene trasformata spesso e volentieri in oblio. E se per caso ci viene ricordata dalla realtà in qualche modo, per qualche incidente o notizia o improvvisa malattia di conoscenti, tutto ciò che sappiamo fare è far partire qualche sano scongiuro o qualche ipocrita preghiera.
In Messico non è così.
Non che qui non si pianga per un caro defunto, anzi; i messicani ne soffrono esattamente come noi, forse anche di più, vedendo quanto sono radicati e vitali i legami famigliari.
Ma la morte è…allegra. Il día del los muertos è una festa vera e propria, con danze, cibi, colori e decorazioni. In alcune zone del Messico la morte è ancora oggi una divinità, comparata, attraverso una bizzarra fusione tra paganesimo e cristianesimo, a Dio e a Gesù Cristo; motivo per cui le si offrono doni e le si dedicano canzoni, per appropiarsene e rendersela in qualche modo “amica”.
Anche i funerali messicani sono celebrazioni festose: si canta, si balla, si mangia molto cibo. E non potrà mai essere – e forse questo è l’elemento che più mi commuove e mi colpisce, per la sua umanità- che ad un funerale partecipino solo cinque o sei persone, come talvolta succede in Italia a qualche povero pensionato defunto, vedovo, senza figli e di fatto dimenticato dal mondo. Qualche giorno fa una mia amica messicana mi raccontava che solo il fatto stesso di aver conosciuto, anche indirettamente o superficialmente, una persona, costituiva una ragione valida e sufficiente per recarsi al suo funerale.
Durante il día del los muertos in Messico ci si traveste da catrinas, si torna dalle città ai propri pueblitos, paesini originari, per festeggiare la giornata con i parenti, e insieme si addobbano i celebri altares de los muertos, altari dei morti.
Si tratta di veri e propri altari, colorati con mille veli colorati e quasi impalpabili, simbolo dell’aria, dello spirito e della speranza. E fiori, tantissimi fiori (bianchi, simbolo del cielo: gialli e arancioni, simbolo della luce e dela vita: viola, simbolo della morte).
Sopra l’altare spicca l’immagine del defunto, attraverso un ritratto o una fotografia. Dopodiché vi si pongono alcuni oggetti o elementi fissi, tradizionali, come l’acqua, che essendo simbolo di vita permette al defunto di fortificarsi durante il suo breve ritorno sulla terra, in cui festeggia con i parenti vivi; o il pane, e immagini religiose come l’immancabile Madonna di Guadalupe, questi segni più specificatamente cristiani.
Ma essendo l’altare dedicato ad un defunto specifico, ecco che viene anche personalizzato. E a mio parere porre sull’altare pietanze, libri, oggetti che il defunto particolarmente amava è una tradizione incredibilmente affascinante. Non è solo un omaggio al morto, ma anche una vera e propria forma di immortalità, ottenuta attraverso il ricordo.
Immaginiamo che tra cento o duecento anni qualche nostro bis-nipote, che mai conosceremo personalmente, si fermerà ad osservarci e a conoscerci grazie ad un altare. Saprà qual è stato il nostro cibo preferito, o i lavori e gli sport e i viaggi che ci hanno appassionato, le persone che abbiamo amato… potrà insomma vedere il segno che abbiamo lasciato su questa terra.
Ora, questo non è un pensiero incredibilmente confortante? In fondo, uno degli aspetti che terrorizza più del morire è l’oblio: non essere ricordati da nessuno, non aver lasciato nessuna traccia sulla terra. Un altar de los muertos, anche il più semplice e povero possibile, rappresenta una sorta di confortante antidoto a questa prospettiva.
Se si vive ad Hermosillo, dove sto vivendo io, la città più americanizzata e costosa di tutto il Messico a causa della vicinanza fisica con gli Stati Uniti, tutte queste tradizioni meritano un discorso a parte.
Perché è qui, più di ogni altra località messicana, che si nota lo scontro tra Dia de los Muertos e Halloween, tra tradizione e modernità, tra nazionalismo e globalizzazione della cultura.
Tanti messicani, rendendosi conto dell’invasione di Halloween nella cultura messicana, si sono irrigiditi e hanno cominciato a protestare per salvaguardare la propria tradizione.
Verso la celebre frontiera, ma non solo, gli Stati Uniti sono una presenza sempre più massiccia. Hermosillo brulica di Burger Kings, McDonalds, Wallmart, Santa Fe e così via. Inevitabile pensare che non succedesse lo stesso rispetto alla celebrazioni e festività…ma cosi è stato solo in parte. Simbolo che i messicani di Hermosillo evidentemente hanno molto più a cuore questa tradizione rispetto alla loro alimentazione o al loro vestiario.
Pochi giorni fa raccontavo a una signora messicana che mia madre, vedendomi addobbata in una foto da catrina - quindi vestita di scuro con il viso pallido e i tratti da scheletro - mi aveva scambiata per una strega di Halloween definendomi “orribile”. La reazione della signora è stata di profonda offesa e mortificazione, e questo mi ha fatto riflettere. Ha insistito che dovessi spiegare a mia madre la differenza tra le due festività. “Tu per Halloween eri brutta e terribile, per noi eri bellissima” mi ha ribadito. “Il día de los muertos puó somigliare ad Halloween, perché ci vestiamo di scuro con richiami espliciti alla morte. Ma il nostro è un giorno di festa, non una tradizione oscura. Non puntiamo sul male, sul terrore e sulla paura; noi balliamo, e ricordiamo insieme i nostri cari. Non vogliamo spaventare nessuno, vogliamo solo omaggiare i nostri defunti. Infatti mettiamo sempre dei fiori, e delle decorazioni colorate alle nostre catrine, non sangue o ragnatele”.
Io credo che la nostra società ci abbia portato lentamente a combattere una strenua battaglia contro la morte, affidandosi completamente alla medicina o a qualunque altro mezzo che ci permetta di trovare una scappatoia, o una distrazione alla morte stessa.
Non che ci sia niente di male nel voler vivere una vita sana, o a voler allungare la nostra aspettativa di vita, penso però che diventi qualcosa di malato quando si estremizza, quando l’argomento della morte diventa un assoluto tabù, quando non ci si vuole più arrendere al fatto che la morte esista e la si veda con odio o la si dimentichi.
I messicani mi hanno insegnato che la morte puó essere un’amica. E che è possibile guardarla anche senza terrore e disperazione…ma nello stesso momento, anche senza rassegnazione.
Forse rendere la morte una festa è un paradosso assurdo, dal nostro punto di vista.
Eppure, di fronte ad un fatto del tutto inevitabile che ci sovrasta completamente, riderne o renderlo una festa non è forse la migliore opzione e prospettiva che si possa avere per – non certo sconfiggerla - ma almeno alleviarne il dolore e la minaccia?